Credo che ogni sportivo abbia sentito parlare, almeno una volta, del fatto che lo yoga possa essere un efficace ausilio allo sport.

Gli asana (posizioni yoga)  compensano alcuni squilibri fisici che spesso sono conseguenza di movimenti ripetuti o dell’utilizzo predominante di alcuni distretti muscolari; le tecniche di respirazione (pranayama) forniscono un supporto unico – permettendo di controllare meglio il respiro e di utilizzarlo come alleato durante l’attività sportiva; specifiche tecniche di meditazione regalano enorme concentrazione, con un deciso miglioramento delle prestazioni sportive.

Ma – a parte queste considerazioni sui benefici, seppur innegabili,  del connubbio tra le due discipline – c’è un comune denominatore tra yoga e running?

Non ho mai praticato alcuna attività fisica seriamente, ma la domanda mi è sorta spontanea quest’inverno, nella notte di San Silvestro.

Mi trovavo in Sri Lanka a meditare con Selene Calloni Williams e il Reverendo Gotatuwe Sumanaloka Thero, monaco errante che vive in solitudine nella foresta e abbiamo deciso di vedere l’alba del nuovo anno dalla vetta dell’Adam’s Peak, una montagna di altezza vertiginosa rispetto al resto dell’isola, considerata sacra da cristiani, musulmani e buddhisti.

Ne raggiungeremo la vetta con un’ascensione notturna per assistere, all’alba, allo straordinario spettacolo del sole che si alza e abbassa tre volte prima di levarsi definitivamente, conquistandosi la sua posizione in cielo.

Cinquemiladuecento gradini  irregolari, ripidi, scivolosi per la pioggia, da scalare con un vento sempre più freddo man mano si sale e, ogni tanto, il sibilare di serpenti ai lati del sentiero.

Quando la salita si fa ancora più ripida – al punto che senza l’aiuto delle braccia che si aggrappano ai corrimano è praticamente impossibile procedere – il monaco mi guarda e sorride, quasi divertito dalla mia fatica, dicendomi, nel suo italiano approssimativo: “Chankamana. No corpo. No fatica”.

Il Chankamana è una tecnica di meditazione buddhista e consiste nel camminare, molto lentamente, mantenendo lo sguardo fisso a terra a circa un metro e mezzo di distanza dal corpo, visualizzando contemporaneamente lo scheletro. In altri termini, si deve portare l’attenzione all’interno e visualizzare lo scheletro che si muove, concentrandosi su ogni singolo osso del corpo, anche il più piccolo, coinvolto nel movimento, dimenticandosi di avere organi, tessuti, muscoli.

In tutta onestà, in quel momento, aggrappata alle corde, con vento e pioggia negli occhi,  il primo pensiero per il monaco non è stato particolarmente amichevole!

Poi, forse per la disperazione, ho deciso di provare: in pochi  minuti, il corpo ha iniziato a diventare più leggero, la salita più veloce, l’energia aumentava di gradino in gradino.

Automaticamente, il mio modo di respirare è cambiato: più potente, più energico,  più simile ad un ruggito che al rantolo di un animale morente.

La mia mente si è liberata dal pensiero ossessivo della distanza dalla vetta e ho iniziato a godermi la scalata, con gioia, mentre salivo sempre più rapidamente.

Nel momento in cui mi sono posta la domanda sul comune denominatore tra yoga e running, subito è arrivata anche la risposta:  ciò che lega le due discipline è la mente, o, più precisamente, il rapporto tra il corpo e la mente.

Nella meditazione, negli asana, come nella corsa, c’è un momento in cui il corpo si trova in perfetta armonia con la mente.

E’ quasi uno stato di semi-alterazione della coscienza, una piccola trance in cui le percezioni si dilatano, i sensi si rivolgono all’interno, il respiro sembra quasi sospeso e si trova l’assenza nella presenza.

E’ la mente che visualizza quell’obiettivo e guida il corpo: andare oltre,  superare la soglia della fatica, entrare nel dolore per superarlo, per annientarlo e dileguarlo completamente.

E’ la mente che ti convince che tutto è possibile proprio nel momento in cui non ce la fai più: quando corri e devi rompere il fiato, come si dice in gergo; o quando mediti e devi restare immobile per molto tempo, le gambe si intorpidiscono perché la circolazione sanguigna rallenta, o ancora, quando devi  resistere nella postura mentre vorresti scioglierla perché i muscoli bruciano in un modo che pare insopportabile.

Resisti per e contro te stesso, per sfidare le tue paure, per riscattare le tue sconfitte, per guarire i dolori passati che ancora bruciano.

Resisti perché ogni cosa importante, nello sport come nella vita, ti presenta degli ostacoli ed è proprio davanti all’ostacolo che crei la tua storia.

Puoi tornare indietro e restare dove sei sempre stato, o vedere cosa c’è oltre.

Ma, per andare oltre la grande soglia, al di là del conosciuto, devi darti senza riserve: abbandonarti completamente allo sforzo, alla fatica, al dolore. Devi immolarti al tuo obiettivo, facendo sacrificio di te, proprio come in un rito sacro, abbandonando ogni resistenza,  perché solo arrendendoti completamente alla fatica e al dolore, li puoi trasmutare. Fino a farli svanire, come se non fossero mai esistiti. Fino a sentirti libero ed invincibile.

Non è tanto vincere la gara, restare immobili a meditare il più a lungo possibile, raggiungere le posture più complesse che ci spinge a correre o a praticare.

E’ in quella resa dell’ego, in quel gesto del darsi, comune a runner e a yogi e yogini, in quel rito sacrificale delle nostre paure, dei nostri bisogni, dei nostri attaccamenti, che si comprende perché, a volte senza esserne consapevoli, anche i runner meditano. Semplicemente lo fanno correndo.

LETTERA APERTA A CHI SOFFRE DI DEPRESSIONE (e come la meditazione può aiutare)
URDHVA DHANURASANA E L'APERTURA DEL CUORE